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La storia di Alekhine


Aleksandr Aleksandrovič Alechin
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

generalmente conosciuto, secondo la traslitterazione francese, come Alexander Alekhine 
(Mosca, 31 ottobre 1892 – Lisbona, 24 marzo 1946), è stato uno scacchista russo, quarto Campione del mondo, spesso considerato uno dei più grandi giocatori di scacchi di sempre.
Tra i più forti giocatori del mondo già all'età di 21 anni, Alechin vinse negli anni '20 la maggior parte dei tornei cui partecipò; nel 1927 divenne campione del mondo sconfiggendo José Raul Capablanca in quello che fu il più lungo incontro di un campionato del mondo tenutosi fino al 1984.
Nei primi anni '30, Alechin continuò a vincere, a volte dominando, i tornei cui partecipava; col passare del tempo, tuttavia, i suoi risultati si fecero più altalenanti, effetto secondo alcuni del suo alcolismo.
Partecipò anche a cinque Olimpiadi degli scacchi come Capitano della Francia, vincendo premi in ognuna di esse (quattro medaglie e un "premio di bellezza").
Difese il suo titolo contro Efim Bogoljubov nel 1929 e nel 1934, prima di venire sconfitto da Max Euwe nel 1935. Due anni dopo Alechin riconquistò il titolo mondiale; lo scoppio della seconda guerra mondiale bloccò le trattative per un nuovo incontro con giocatori della nuova generazione come Paul Keres o Michail Botvinnik.
Alechin morì in Portogallo nel 1946, ancora campione in carica. Alechin è ricordato per il suo stile di attacco accanito ed ingegnoso, unito a una grande abilità nelle posizioni e nel finale.
Introdusse numerosi innovazioni nel campo delle aperture, dando il suo nome alla difesa Alechin e a diverse altre varianti d'apertura. Alcuni sistemi statistici di valutazione dissentono sulla sua forza relativa agli altri giocatori della storia degli scacchi, ponendolo, all'interno delle loro liste "all-time", fra il quarto e il diciottesimo posto.


per una più dettagliata storia su Alekhine, continua la lettura dell'articolo del M° Fabio Lotti apparso sul sito http://soloscacchi.altervista.org/ :

I Re degli scacchi: Aleksandr Aleksandrovic Alekhine

Scritto da: Fabio Lotti | 6 marzo 2013 

 

 Il cameriere che la mattina del 25 marzo 1946 entra con la colazione fumante in una stanza d’albergo ad Estoril non pensa certo di trovarsi di fronte ad una scena drammatica. L’uomo se ne sta tranquillamente adagiato nella solita poltrona con il capo lievemente inclinato verso la spalla sinistra e una espressione serena sul volto. Davanti a lui un tavolo sul quale sono sparpagliati piatti e vassoi e, più a destra, sopra uno sgabello, una grande scacchiera con tutti i pezzi al proprio posto. Sembra dormire. Il cameriere lo scuote e il braccio sinistro che pende al di fuori della poltrona dondola più volte inerte. Aleksandr Aleksandrovic Alekhine ha terminato la corsa della sua vita.

 

Nato a Mosca l’11 settembre 1892 da una famiglia agiata, essendo il padre un maresciallo della nobiltà e la madre una commerciante che possiede azioni in una fabbrica di tessuti, Alekhine non fa parte di quella tremenda schiera di bambini prodigio che assilla noi comuni mortali, di quelli, insomma, che sin dalla culla riescono a darti il matto del corridoio e strillano tutta la notte se non hanno vinto tutte le partite. Impara presto, è vero, a sette anni, ma poi impiega un po’ di tempo per rodare il motore. Fa parte, invece, di quella banda di piccoli sciagurati che mandano in bestia i fratelli più grandi. Imparano a giocare con loro, perdono i primi incontri, poi regolarmente li umiliano e li ridicolizzano. Così è per Alexandr Alexey che, in cambio di qualche travaso di bile, si guadagna l’immortalità.

 

E’ un periodo, questo, di grande fermento negli scacchi. Nel 1886 Wilhelm Steinitz viene dichiarato campione del mondo, l’astro Paul Morphy illumina l’America e la vecchia Europa, Pillsbury infiamma gli animi con le sue straordinarie simultanee alla cieca, il grande Cigorine offre esibizioni spettacolari. Il nuovo germoglio non può scegliere terreno più fertile. Irrobustito da numerose partite per corrispondenza tra il 1902 e il 1904 si appresta ad entrare con gloria nell’arengo internazionale.

Dopo qualche discreto successo e anche qualche inevitabile delusione si laurea Grande Maestro nel prestigioso torneo di Pietroburgo del 1914 al quale partecipano, oltre al campione del mondo Lasker, molti tra i più forti giocatori del tempo. E’ terzo assoluto dietro ai colossi Lasker e Capablanca, un nome che ritroveremo spesso seguendo la via del Nostro. La brutta bestia della guerra lo trova in un paese straniero, ritorna in Russia addetto ai servizi sedentari, sposa la giornalista svizzera Anna Rueg con la quale nel 1921 si reca a Berlino e poi a Parigi. Da buon borghese preferisce evitare le insidie della Rivoluzione che divora spesso gli stessi figli. Non tornerà più nella sua patria.

Inizia a giocare ininterrottamente per guadagnare il tempo perduto, passa da una nazione all’altra, da un torneo all’altro, macina vittorie su vittorie. Arriva finalmente a sfidare il mitico, l’irraggiungibile Capablanca che domina le menti quadrettate di tutto il mondo. “Diecimila dollari” è la risposta sportiva del grande Capa. Come chiedere una Ferrari al sottoscritto. Ci vogliono ancora alcuni anni di successi e la pubblicazione dello straordinario “My best games” perché un grosso sponsor, il governo argentino, trovi i fondi necessari per il match mondiale.

Ed eccoci a Buenos Aires nel 1927. Alekhine si è preparato all’impresa in maniera eccezionale. Ha indagato a fondo i propri difetti ma, soprattutto, quelli (pochi, in verità) del mostro cubano. Capablanca è stato voltato e rivoltato da tutte le parti, come un cadavere è stato sezionato in lungo e in largo, per dritto e per traverso. Nulla sfugge all’occhio vigile ed inquieto dell’ex russo. Ogni piccolo errore, ogni lieve, impercettibile imprecisione del suo prossimo avversario viene individuata e analizzata per smontare, pezzo dopo pezzo, il più grande mito scacchistico del tempo. Alla fine di un lavoro colossale arriva alla conclusione che “in apertura Capablanca è temibile solo per le sue raffinate risorse difensive, mentre il mediogioco, dove talvolta si esprime “attivamente”, è il suo punto forte; nel finale, solo eccezionalmente si distacca dalla media dei pur pochi specialisti di grande classe e nessuno di questi ultimi dovrebbe ragionevolmente temerlo più di tanto…”.

 

Con tale preparazione concreta e psicologica alle spalle, Alekhine si appresta ad uno dei “combattimenti più avvincenti della storia degli scacchi”. Come ho già sottolineato nel profilo su Capablanca il match sembra essere guidato dalla mano di un abile regista di thrilling. Se dovessi usare una metafora per spiegare brevemente l’andamento dell’incontro userei quella del ciclismo. In una atmosfera di euforica fiducia verso il cubano “parte” inaspettatamente Alekhine, quasi subito ripreso e superato da uno scatto bruciante dell’avversario. Tutto come previsto, come sentenziato dai santoni del tempo, ma all’improvviso nell’undicesima e dodicesima partita due allunghi poderosi riportano in testa lo sfidante che aumenta il vantaggio nella ventesima. Il Destino sembra ormai deciso. Apollo-Capa è stremato, senza fiato, arranca penosamente lungo le colonne e le traverse. Ricorrendo a tutta la sua forza di volontà riesce a salire ancora sui pedali, opera uno strappo, si avvicina. Siamo a 4 a 3, ma è l’ultima scintilla del campione del mondo che dovrà lasciare il suo trono per 3 a 6 e ben 25 patte! Roba da tour di Francia e giro d’Italia messi insieme.

La vittoria è esaltante ma lo sforzo è stato terribile e il fantasma del cubano turberà per molto tempo le notti del giovane campione che non gli offrirà mai la cosiddetta rivincita. Fra loro si erge una barriera di odio e di disprezzo, fanno di tutto per non incontrarsi ed evitare anche la reciproca, semplice vista. Sanno di essere i più forti e non vogliono cedere di un palmo, come due bambini capricciosi. E’ comunque, questo, un periodo straordinariamente felice per la creazione “artistica” di Alekhine (secondo lui gli scacchi sono Arte vera) che raggiunge vertici anche oggi difficilmente superabili. Sulla scacchiera soffia davvero il vento del Genio che tutti noi abbiamo poi imparato a conoscere. Ma ogni Genio che si rispetti ha, nello stesso tempo, il suo lato oscuro, terribile e affascinante. Esso viene fuori nel quarto match per il titolo mondiale (nel 1929 e nel 1934 si era sbarazzato abbastanza facilmente del robusto Bogoljubov, che gli italiani ricordano con piacere per una sua famosa sconfitta subita ad opera del nostro Mario Monticelli a San Remo nel 1930) contro Max Euwe nel 1935. Dopo un inizio brillante incomincia a perdere in maniera inconcepibile fino a beccarsi addirittura il matto dopo l’arrocco. Come è possibile? La risposta non lascia adito a dubbi: Alekhine beve, è ubriaco. L’alcool lo sta portando alla rovina. Al di là del risultato +8=13-9, che pure non sembra una vera debacle, perde ignominiosamente il suo titolo.

 

Ma non è la fine. Dopo un periodo di crisi, aiutato anche dalla nuova moglie americana Grace Wishaar, riesce a riprendersi, smette di fumare, si tiene lontano da Bacco e affronta il secondo incontro con Euwe in maniera ben diversa. Il risultato è secco e perentorio: vince dieci partite, ne pareggia undici e ne perde solo quattro. Lo scettro è ritornato nelle mani del più forte.

 

Continua ancora a vincere ma non sempre a convincere. La sua stella sta lentamente declinando, come è nell’ordine naturale delle cose. Gli ultimi momenti della sua vita lasciano un segno di infinita tristezza in chi lo ha amato e adorato. Accusato di avere avuto simpatie per il governo collaborazionista francese e di avere espresso giudizi negativi contro gli ebrei, alla fine della guerra è chiamato a discolparsi davanti ad una apposita commissione. Deve presentarsi la mattina del 25 marzo 1946. Ma i giudici aspetteranno invano. Alekhine è comparso davanti ad un altro Giudice, quello di tutti, supremo e inappellabile.

 
 

Il solito sentito e doveroso ringraziamento alla prestigiosa rivista L’Italia Scacchistica!

Scritto da: Fabio Lotti 

 


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